Atterrare a Città del Guatemala per la prima volta è stato come entrare in una storia già iniziata, un racconto a cui mancava un pezzo fondamentale per essere compreso. Era tutto avvolto in un silenzio pesante, carico di un dolore collettivo che non riuscivo a decifrare. Un omicidio? Una strage? Un’ingiustizia così grande da smuovere l’intera città? Non parlavo ancora bene lo spagnolo e i dettagli mi sfuggivano, ma capivo che la piazza di fronte al Palazzo del Governo non era solo uno spazio urbano: era un palcoscenico di memoria e resistenza.
Nel tempo, durante i miei viaggi successivi, vidi qualcosa nascere proprio lì, su quel selciato. All’inizio era solo una macchia bruciata sulla pietra, un’ustione sul corpo della piazza. Poi comparvero fiori, candele, piccoli oggetti votivi. Infine, divenne un cerchio colorato, circondato da 41 croci, ciascuna con un nome inciso sopra.
Solo molto più tardi avrei scoperto il significato di quel luogo. Il suo nome era Belejeb Ix, “Nove Giaguaro” nella tradizione Maya. Era un altare di commemorazione e denuncia, nato dal fuoco di una tragedia. Una ferita ancora aperta.
Una strage nascosta e un fuoco che non si spegne
Il 7 marzo 2017, 56 bambine e adolescenti erano rinchiuse in un cosiddetto “rifugio sicuro” dello Stato guatemalteco, un luogo che avrebbe dovuto proteggerle da abusi e violenze. Ma la realtà era l’opposto: abusi, fame, privazioni, maltrattamenti erano la regola. Alcune ragazze denunciarono pubblicamente ciò che accadeva lì dentro, rivelando l’inferno che stavano vivendo. Tra i responsabili degli abusi c’erano uomini vicini all’allora presidente Jimmy Morales.
Le bambine furono punite per aver parlato. Chiuse in una stanza di 6 metri per 3, senza bagno, senza aria, senza possibilità di fuga. Per ore furono lasciate lì, drogate, isolate, senza acqua né cibo. Poi il fuoco. Un incendio scoppiato “accidentalmente”, dicono i documenti ufficiali. Una strage voluta, dicono le madri delle vittime. Le porte erano chiuse dall’esterno.
Morirono 41 di loro. Le altre 15 porteranno le ustioni sulla pelle per sempre.
Nei giorni successivi, il governo cercò di cancellare le prove e infangare la memoria delle vittime. Alcuni giornalisti al soldo del potere le dipinsero come ragazzine problematiche, insinuando che si fossero meritate la loro fine. Ma la città non dimenticò.
L’8 marzo, proprio il giorno dopo la strage, centinaia di persone si riunirono davanti al Palazzo del Governo per protestare. Tra loro c’era una donna, doña Rosa, che tutti chiamano Lola. Fu lei ad accendere le prime candele su quel pezzo di strada annerito dal dolore. E fu lei a far nascere l’altare di Belejeb Ix.
Lola, la “strega” che non si arrende
Doña Lola non è una figura qualsiasi. È una guida spirituale, una sciamana, una bruja, una donna che incarna molte identità. Ha sangue Maya-Q’eqchi’, capelli rosso fuoco e una tuta blu da lavoro. Non veste abiti cerimoniali, eppure ogni suo gesto porta con sé un senso di rito e di appartenenza.
Non si definisce semplicemente una sciamana: «Politicamente, sono una strega» mi dice, con un sorriso.
Nel tempo, la sua lotta si è trasformata in qualcosa di più grande. Ogni 8 del mese, una nuova cerimonia del fuoco viene celebrata per mantenere viva la memoria delle 56 bambine. Ma non si tratta solo di un atto simbolico. L’altare è diventato il cuore di una scuola autogestita per i bambini abbandonati della città.
Lola racconta che una notte, stremata dalla fatica e dalle minacce, decise di abbandonare la lotta. Ma proprio in quel momento, le antenate le inviarono un sogno. Le dissero di costruire qualcosa per i bambini che nessuno voleva vedere: quelli che crescono nelle strade, figli delle venditrici ambulanti, bambini invisibili.
E così, Belejeb Ix divenne anche una scuola. Un luogo dove i bambini ricevono educazione, protezione e cura attraverso l’arte e la medicina tradizionale.
Le minacce non sono mai cessate. L’ex presidente Morales arrivò persino a vandalizzare l’altare con le proprie mani. Lola ha ricevuto minacce di morte, accuse di stregoneria, intimidazioni di ogni tipo. Evangelici e gruppi fondamentalisti cristiani l’hanno attaccata pubblicamente, accusandola di “adorare il demonio”.
Ma lei risponde sempre con calma. “Mosè ha parlato con Dio attraverso un roseto in fiamme”, dice a un predicatore ostile. “In Luca-28 è scritto che Dio ha lasciato le piante perché potessimo curarci”, ribatte a chi la accusa di magia nera.
Lola non combatte solo per le 56 bambine, ma per tutti coloro che vengono dimenticati. E la sua forza è nelle radici di una cultura che vede la spiritualità e la resistenza come un tutt’uno.
La speranza di un nuovo futuro
Dopo sette anni di lotta, qualcosa sta cambiando. Il nuovo presidente del Guatemala, Bernardo Arévalo, ha mostrato apertura verso le richieste della Colectiva Plaza de las Niñas. Anche se non tutto verrà realizzato, c’è la speranza che almeno alcune delle scuole del Paese vengano intitolate alle vittime della strage del 2017.
Lola, però, sa che il vero cambiamento non arriverà dall’alto. La sua lotta, e quella della comunità di Belejeb Ix, è una lotta dal basso. È un esempio di come le tradizioni possono diventare strumento di resistenza, di cura e di trasformazione sociale.
Perché la Cosmovisione Maya non è solo un’antica eredità culturale: è un sistema di pensiero che può guarire le ferite di un mondo frammentato, proprio come il fuoco sacro di Belejeb Ix guarisce le ferite del passato.
E forse, in un’epoca in cui tutto viene mercificato e trasformato in prodotto turistico, questa storia ha molto da insegnare anche a noi.
Conclusione: Perché Raccontare Questa Storia?
Da accompagnatore turistico e aspirante guida, il mio compito dovrebbe essere quello di portare le persone a vedere il mondo. Ma il turismo non è solo spostarsi da un luogo all’altro. Il viaggio è anche incontro, ascolto, memoria.
Raccontare la storia di Belejeb Ix non è solo un atto di cronaca, ma un modo per condividere una lezione di resistenza e di giustizia. Perché, in fondo, non è possibile esplorare davvero un Paese senza ascoltare le sue voci più profonde.